Viaggiamo in Basilicata da qualche giorno. Abbiamo lasciato la valle del Vulture, e i suoi paesi: Venosa con la misteriosa chiesa dell’Incompiuta, i resti del suo passato romano e l’Abbazia della Santissima Trinità un vero gioiello artistico.
Melfi su cui domina l’imponente struttura del castello di Federico II di Svevia e dopo le strade verticali e ripidissime di Potenza ci stiamo addentrando nel cuore di questa regione, così bella e ancora poco conosciuta, quando in modo quasi inaspettato davanti ai nostri occhi compaiono loro: le maestose Dolomiti Lucane, le sorelle più piccole delle omonime trentine.
Pinnacoli e vette di arenaria si innalzano al cielo come le guglie di una cattedrale dedicata a Madre Natura, il cui pavimento è un mosaico di verdi fatto di sconfinati boschi, prati e foreste.
Più la strada di inerpica più il paesaggio si fa selvaggio e poi, dopo l’ultima curva, ecco i borghi montani aggrappati alle pareti scoscese o adagiati in piccole gole. Siamo nel Parco Gallipoli Cognato un intrico di cerri, aceri, castagni, tagliato da strapiombi e gole, dove scorrono innumerevoli corsi d’acqua e vivono cinghiali, lupi, volpi e daini.
È l’erosione del vento e della pioggia che in migliaia di anni ha creato questo panorama quasi preistorico, aiutata del ritiro del ghiacciai che ha messo in luce giganti che superano i mille metri. Hanno più di 15 milioni di anni, forme bizzarre e nomi fantasiosi: la Civetta, l’Aquila, il Leone, la Grande Madre. La posizione di dominio sulla valle di Castelmezzano, come di Pietrapertosa, la rese un’inaccessibile roccaforte e fu presidio normanno e punto di partenza per le Crociate.
Castelmezzano è stato luogo di ristoro per i cavalieri diretti in Terra Santa tra cui i Templari la cui croce è stata rinvenuta su una porta, rivolta verso oriente, nella Chiesa di Santa Maria.
La chiesa si affaccia su un belvedere da cui si ammirano le tante casette strette l’una all'altra quasi volessero farsi forza per sopravvivere ai mesi più freddi perché anche se siamo a sud, qui in inverno la neve e il ghiaccio non mancano.
Oggi è una magnifica giornata di fine estate, la gente passeggia sulla piazza e affolla il corso principale che attraversa tutto il centro abitato fatto di case incastonate nella roccia, con i tetti di arenaria che splendono al sole, scalette ripide e vicoli tortuosi che si arrampicano sulle pareti delle montagne in un perfetto gioco di equilibrio tra la natura e l’urbanizzazione. Lungo la via si vedono le indicazioni per raggiungere sentieri per passeggiate e arrampicate.
È proprio allontanandosi dal centro e dai turisti che si riesce ancora a sentire l’atmosfera misteriosa che aleggia in questi borghi, dove le leggende che intrecciano simboli pagani a quelli cristiani, raccontano di creature strane, streghe, spiriti notturni, regine della foresta capaci di rituali propiziatori e fatture d’amore che portano al delirio.
Noi alloggiamo a Pietrapertosa, uno dei borghi più belli d’Italia adagiato su pareti di arenaria a 108 8 metri che ne fanno il paese più alto della Basilicata. Lo ammiro da una balconata mentre il cielo della sera si fa sempre più blu e le luci si accendono tra i suoi vicoli e le sue case trasformandolo in un piccolo presepe incastonato in una cordigliera frastagliata.
Pietrapertosa era conosciuto dai Greci, dai Romani, dai Longobardi e dai Saraceni che prima dell’anno 1000 edificarono il quartiere più caratteristico l'Arabatana con le sue case aggrappate alla roccia, spesso dotate di uscite secondarie per fuggire in caso di pericolo.
Poi fu la volta dei Normanni che fecero del fortino saraceno il loro Castello, i cui resti sono raggiungibili percorrendo una ripida salita che parte alle spalle del nucleo arabo. Andare a spasso tra i vicoli è il modo migliore per vivere l’atmosfera di questo borgo. Si vedono tracce del passato medievale, i grandi archi che separano un rione dall'altro e i maestosi portoni delle antiche case signorili di via Garibaldi dove con un po' di fortuna si può entrare e ammirare i cortili, le scalinate, le facciate scrostate dal tempo.
Ma la particolarità di questi borghi non si limita ai centri urbani. Castelmezzano e Pietrapertosa sono infatti la meta per chi ha voglia di adrenalina.
Ci sono sentieri ben segnalati adatti a tutti: percorsi di trekking tra ponti sospesi e vie ferrate, pareti verticali e tratti in esposizione di straordinaria bellezza per chi ama le arrampicate, oppure passeggiate meno impegnative come il suggestivo “percorso delle 7 pietre”, un antico tratturo che collegava i due paesi.
Si cammina nei boschi, ascoltano il respiro degli alberi ma anche, fermandosi in tappe segnate da grandi pietre, la storia di “Vito che ballava con le streghe” un racconto tramandato da generazioni, che narra di principi della notte, maghe che seducono fino alla pazzia e angeli in volo. Non è quindi un caso se proprio qui, mentre camminate sentite qualcosa librarsi sopra di voi.
Alzate gli occhi e non potrete non accorgervi del cavo d’acciaio sospeso a 400 metri d’altezza e lungo 1 km e mezzo. È quel salto tra cielo e terra chiamato il volo dell’angelo.
Poco più di un minuto di sorvolo a 120 km orari, sopra i boschi e i burroni, uno straordinario impatto col vento tra la maestosità delle Dolomiti, un emozione forte e carica di adrenalina.
Oggi lasciamo le Dolomite e prendiamo la strada che ci porta verso Aliano (il paese dove visse in esilio Carlo Levi che con il romanzo “Cristo si è fermato a Eboli” fece conosce all'Italia la dura vita nei Sassi di Matera) e Alianello due piccoli borghi arroccati in un paesaggio lunare, i Calanchi di cui la Basilicata è ricca (altri calanchi li troveremo attorno a Montalbano Ionico).
Questo insolito panorama nato dal ritiro di un paleomare è un territorio arido e impervio dove la strada si snoda tra solchi paralleli che sembrano grandi ventagli aperti davanti ai boschi di macchia mediterranea. Il sole esalta il bianco delle pareti rendendolo quasi accecante ma il fascino del luogo è assoluto.
Seguendo la strada si continua a scendere verso un altro luogo di autentica bellezza il Parco Nazionale del Pollino. In pochi chilometri si passa dalle bizzarre sculture dei Calanchi, aridi e candidi, ai verdi pendii del Massiccio del Pollino, attorno a me tutto cambia completamente e ancora una volta la Basilicata mi stupisce per la varietà degli scenari.
Siamo nel parco nazionale più grande d’Italia, adagiato tra la Basilica e la Calabria. Istituito nel 1993, racchiude oltre 190 mila ettari di boschi, prati e pareti rocciose, un panorama vario, aspro e selvaggio che ne fa una delle aree naturali più spettacolari nelle quali passeggiare, arrampicarsi e godersi l’aria frizzante.
In questo Geoparco tutelato dall'Unesco si stagliano nel cielo azzurro, le vette del Dolcedorme, del Cozzo del Pellegrino e del monte Grattaculo (si è guadagnato questo nome curioso perché ricco di cespugli di rose dalle bacche irritanti, di cui le capre sono ghiotte ma che provocano un fastidioso prurito che le spinge a grattarsi continuamente).
Sono tanti i percorsi che si possono seguire per conoscere il Parco: circuiti ad anello, sentieri con diversi gradi di difficoltà, ore di camminata e dislivello. La vasta scelta permette di passare intere giornate in questa area protetta che ospita una numerosa fauna dal carattere schivo ed elusivo: cinghiali, tassi, lepri, volpi, lupi e caprioli, mentre se alzate gli occhi al cielo potreste veder volteggiare aquile reali, falchi pellegrini, sparvieri e poiane. L’ufficio del turismo di San Severino lucano ci ha dato cartine, opuscoli e numeri per contattare le guide per i percorsi più impegnativi.
Scegliamo un giro ad anello che parte da Piano Ruggio e dal piccolo rifugio De Gasperi. Qui un sentiero sale dolcemente tra i boschi di faggi dove la luce del sole crea giochi di ombre con le folte chiome degli alberi e moltiplica le mille sfumature di verde che ci circondano.
La bella camminata, poco più di 3 chilometri, passando tra la faggeta e le radure, ci porta ai 1646 metri del Belvedere di Malavento una delle terrazze panoramiche da cui si possono ammirare vedute mozzafiato. Davanti allo strapiombo sulla Valle di Mauro lo sguardo spazia all'infinito e nelle giornate terse arriva fino al mare. Aeree rocciose si alternano alla macchia mediterranea e a foreste in cui spiccano slanciati e maestosi i pini loricati diventati il simbolo di questo parco.
Crescono alti, raggiungono anche i 30 metri, aggrappati alla roccia, esposti ai venti, con la loro corteccia a squame lucenti simile alla “lorica” l’armatura dei soldati romani che fa la assomigliare alla pelle di un serpente. Sculture di Madre Natura, contorte e imponenti che rendono unico il paesaggio.
È difficile lasciare questi spazi verdi in cui lo spirito entra in sintonia con il ritmo lento della natura, dove le giornate sono scandite dal sorgere e dal tramontare del sole, da giornate di caldo intenso e serate più fresche con la via Lattea che splende brillante nel cielo quasi nero.
Ma la costa del Metaponto ci aspetta. Lungo la strada ci fermiamo in due paesini dalla storia davvero particolare, San Paolo e San Costantino meno di un migliaio di abitanti eredi di un gruppo di esuli arrivati dall'Albania in Italia cinque secoli fa, ultimi esponenti della comunità arbereshe.
Mentre passeggio per le viuzze strette e tortuose di San Paolo ho la fortuna di incontrare una gentile signora che mi porta a visitare il piccolo ma interessantissimo museo della cultura arbereshe e mi fa scoprire un mondo a me sconosciuto.
Tutto inizia alla fine del XV sec. quando, davanti all'avanzare del micidiale esercito turco che si stava impadronendo della penisola balcanica, tante famiglie albanesi lasciarono le loro case. Si stabilirono tra Basilicata e Calabria portando con loro non solo oggetti e suppellettili, ma anche una cultura, un idioma, una religione e le speranze per una vita nuova.
Per secoli vissero isolati dal resto dell’Italia mantenendo inalterati la lingua, le tradizioni, il credo religioso e fino all'inizio del ‘900 non si mescolarono agli italiani preferendo matrimoni all'interno delle loro comunità. Le nozze sono ancora un evento importante che coinvolge l’intero paese, con centinaia di invitati e una cerimonia lunga che si conclude con lo scambio non degli anelli ma delle corone. Visito le loro chiese, simili nella disposizione interna, nei dipinti e nelle icone, a quelle ortodosse, ma la fede è ufficialmente quella cattolica con le funzioni che seguono il rito greco-bizantino.
Ascolto i canti tradizionali, in una lingua incomprensibile ma armoniosa che gli aebereshe parlano ancora. È un albanese antico che condivide con quello moderno solo la fonetica, per cui gli con gli abitanti dell’Albania si capiscono ma l’ortografia si è troppo modificata perché gli arbereshe possano leggerla.
Nelle teche del museo si possono ammirare gli abiti tradizionali che in alcune occasioni si usano ancora. Quelli femminili sono composti da una camicia bianca e una lunga gonna colorata, realizzati a mano con le fibre della ginestra.
La coltivazione e l’utilizzo di questa pianta appartiene da sempre a queste comunità ed era un lavoro delicato e laborioso esclusivamente femminile. Oggi è un’attività scomparsa perché troppo lunga e costosa, dove tutto deve essere fatto manualmente, dove il minimo errore nella temperatura dell’acqua usata o nel tempo di essiccazione delle fibre, può compromettere il risultato finale.
Per cui il filo di ginestra è stato sostituito negli anni con il cotone ma gli abiti tradizionali sono ancora orgogliosamente realizzati a mano da poche sarte specializzate. Hanno costi elevati e sono piccoli capolavori di una tradizione portata avanti con tanto amore.
Proseguo da sola la mia passeggiata per i vicoli (ruga) e le piazzette (sheshe) di questi due borghi, tra edifici di pietra e legno che mostrano i segni del tempo ma sono abbelliti da tanti vasi di fiori. Mi fa ombra la biancheria che sventola al sole tra una casa e l’altra, ritrovo vecchie insegne del telefono e sento l’odore del pane che esce da un forno.
Alla fine mi riposo tra la gente seduta ai tavoli in piazza, attorno a me il suono di voci che mescolano l’italiano al dialetto lucano e all'albanese, le risate dei bambini che nei paesi della Basilicata hanno la fortuna di poter giocare ancora per le strade.
Seduta sotto un ombrellone che mi ripara dal cocente sole del sud, sfoglio un opuscolo e mi salta all'occhio la frase “il mare e il mito” e nessun titolo è più azzeccato per la Costa Jonica della Basilicata. La macchia mediterranea e le pinete degradano fino al mare di un azzurro trasparente, limpido con il fondale che scende dolcemente, una fusione di azzurro e verde racchiusa tra la Puglia e la Calabria.
Dopo aver passato le prime dune bianche coperte da gigli selvatici, ginestre, piante di agave, mirto e rosmarino sono arrivata alla spiaggia, chilometri di sabbia dorata davanti al moto perpetuo di un mare che ha visto approdare guerrieri, conquistatori e popoli da terre lontane che scelsero di vivere in queste terre e costruirono città, templi, santuari, teatri e necropoli di cui ci restano straordinarie testimonianze archeologiche.
Sono le antiche città della raffinata cultura della Magna Grecia: Metapontum, Siris, Herakleia, Pandasia dove si sono intrecciate la storia e la natura, il mito di eroi e divinità con la vita di filosofi e artisti. Un tuffo nel passato lo si compie entrando nel Museo Archeologico di Metaponto, nelle sue sale si viaggia dalla Preistoria alla conquista romana passando attraverso i fasti della Magna Grecia.
La ricchezza dei reperti esposti lascia davvero senza parole: bassorilievi di templi, statue, ceramiche, terrecotte, gioielli e armature tutto racconta la straordinaria vita di queste colonie. E se questo non basta a pochi chilometri c’è una delle più maestose testimonianze di tutta la Magna Grecia: le Tavole Palatine, ovvero il Tempio dedicato a Hera, sorella e moglie di Zeus, regina dell’Olimpo, nume tutelare della famiglia, ma anche dea gelosa e capace di vendette atroci.
Del luogo sacro più importante di tutta l’area ammiriamo oggi sono due file di colonne doriche, 15 per la precisione, che risalgono al IV sec. a.C. e che si stagliano in tutta la loro eleganza e imponenza nel cielo azzurro. Viaggiando lungo le strade di questa parte della Basilicata si ammira un susseguirsi di piccoli paesi, fatti di pietra e di facciate bianche, torri difensive, fortezze massicce e antiche masserie.
Rotondella che si avvolge a spirale sul versante della montagna in un intreccio di vie e vicoli fino al Balcone panoramico da cui si può ammirare la striscia azzurra del Mar Ionio.
Pisticci rimasto quasi diviso in due quando nel lontano 1688 una gigantesca frana separò da un lato le “casedde” bianche del quartiere Dirupo e dall'altro la parte alta e più antica attorno al castello medievale. Montalbano porta d’ingresso al Parco dei calanchi, adagiato su una collina da cui domina l’intera vallata che è un immenso giardino di ulivi e agrumeti.
Bernalda luogo d’origine della famiglia del grande regista americano Francis Ford Coppola proprietario per altro di Palazzo Margherita ora trasformato in un hotel esclusivo. Tursi e l’imperdibile Santuario di Santa Maria Santissima di Anglona e ancora Montescaglioso con l’Abbazia di San Michele, Miglionico e il suo castello, fino a Craco il paese fantasma.
E qui ci devo tornare. Questa è la prima cosa a cui penso mentre l’impiegato del museo mi spiega che da oggi a Craco non si entra più. Fino a quando? E chi lo sa. La notte scorsa c’è stato un incendio che ha fatto crollare una passerella. Dovranno fare dei lavori, rimettere in sicurezza il percorso, autorizzare gli ingressi. Non nego che sono davvero dispiaciuta. E allora lo guardo camminando attorno alla cancellata che lo circonda.
L’unico essere vivente che scorgo è un asinello. Il resto sono edifici diroccati, macerie in bilico nel silenzio. Un paese disabitato ma il cui colpo d’occhio è davvero unico, un paese con una sua vita e un futuro fino al 1967.
In quell'anno dopo l’ennesima frana e la maldestra decisione di puntellare le case con massicci muri di contenimento la situazione andò rapidamente a peggiorare.
Di frane se ne erano verificate anche nei decenni prima ma è solo quando le crepe nelle abitazioni si fecero più evidenti e gli smottamenti più importanti che divenne chiara la necessità di spostare gli abitanti in un luogo più sicuro.
Avvenne così l’evacuazione di Craco e la nascita di Craco Peschiera. La torre normanna, la chiesa di San Nicola, ma anche i palazzi, il cinema, l’ospedale, tutto fu lasciato al suo destino. La natura lentamente ma in modo inesorabile si fece largo nelle stradine lastricate e nei resti delle case. C’è qualcosa di ammaliante in questo scenario fatto di edifici pericolanti che sembrano ondeggiare nel vento che solleva nuvole di polvere.
Quella magia che ha spinto registi come Pasolini, Gibson, Rosi a scegliere Craco come set dei loro film e che attrae ogni anno decine e decine di turisti che con il loro passaggio rendono ogni giorno questo piccolo borgo più vivo di quanto il destino avesse programmato.
Se Craco è rimasta abbandonata e deserta c’è un’altra città che invece è riuscita a risorgere da un destino che sembrava segnato: la splendida Matera.
Non è semplice raccontare cosa sono i Sassi di Matera. Posso dire che la città ha una struttura particolare, adagiata su due gravine, il Sasso Barisano e il Sasso Caveoso, che si uniscono nel fondovalle in quella che è Via Fiorentini.
Posso suggerire di visitare la sua Cattedrale, la Chiesa di San Francesco o quella di San Giovanni Battista o le indimenticabili Chiese rupestri come la piccola Santa Maria d’Idriss dove volti di santi, vescovi e angeli mi guardano dalle pareti affrescate mentre la luce soffusa che le illumina fa danzare mia ombra sui pavimenti e sulle pareti di pietra. O la suggestiva Santa Lucia alle Malve piena di tutto il fascino di secoli di tradizione, di preghiere, di suppliche rivolte a Dio.
Sparse per la città ce ne sono altre, ognuna con la sua particolarità come San Pietro Barisano, nel cui sottosuolo si nasconde un lungo e contorto cunicolo che passa anche dalle piccole sale che servivano per l'essiccazione dei defunti.
Ma la Matera che mi è rimasta nel cuore me l’ha raccontata Angela un’ anziana signora con cui ho avuto il piacere di chiacchierare in un assolato pomeriggio.
Con le sue parole mi ha mostrato la Matera che non c’è più. Quella che avevano chiamato la “vergogna d’Italia”, quella che i suoi occhi vedono ancora dietro le ristrutturazioni, che hanno trasformato le vecchie abitazioni in hotel, ristoranti, musei.
Mi racconta della nonna che ha passato la vita in queste grotte-caverne dove non c’era acqua corrente, rete fognaria, elettricità in anni in cui il resto d’Italia conosceva aerei, telefono, televisione, elettrodomestici.
Nei Sassi si viveva, famiglie con i loro animali, in un’unica stanza con solo la porta e nessuna finestra. L’acqua la si andava a prendere alle fontane e alle cisterne. In tutta la città c’erano cinque e adesso se ne possono visitare due: il Palombaro lungo nel Sasso Barisano e il Palombaro corto nel Sasso Caveoso.
Sono cisterne scavate nella roccia, non caverne naturali, che contengono ancora oggi l’acqua sorgiva. Si scendono delle lunghe scale in metallo per arrivare a camminare sulle passerelle sospese sulla sua superficie trasparente. Basta alzare lo sguardo sulle pareti per vedere il segno lasciato dall'acqua, qui nel Palombaro lungo ce ne stavano fino a 5 milioni di litri.
Dai buchi nel soffitto venivano calati i secchi per l'approvvigionamento e spesso nella cisterna cadevano orologi, bottoni, chiavi e soprattutto proprio i secchi.
Ma andare a prendere l’acqua mi racconta Angela con un sorriso malizioso, era anche l’occasione per i giovani di conoscersi, fare amicizia e magari innamorarsi. Poi quando una nuova famiglia si formava era necessario una stanza in più e allora si poteva allungare la casa sul davanti oppure si scavava, si scendeva di un piano e il pavimento di una stanza diventava il soffitto di quella nuova e se si guarda con attenzione si vedono bene i diversi livelli in cui Matera si è sviluppata. Ogni giorno gli uomini lasciavano i Sassi per andare a lavorare nei campi dei grandi proprietari terrieri che vivevano nei palazzi della Civita, Palazzo Lanfranchi, Palazzo Pomarici, il Castello Tramontano.
Chi si allontanava affidava alla nonna di Angela le chiavi delle varie abitazioni, lei si preoccupava anche di smistare la posta, conservare i contenitori del latte. Ma era anche l’ostetrica che veniva chiamata per i parti, la confidente delle giovani donne, la tata dei bambini che giocavano nei cortili e nei vicoli.
Era parte di quel reticolo di aiuti e sostegno che qui si chiama “vicinato”. Era il sistema sociale su cui si basava la vita nei Sassi e la rendevano qualcosa di unico.
Sono proprio questi legami che più sono mancati alla gente che da dagli anni 50 è stata sfollata dai Sassi e mandata a vivere nei quartieri moderni.
Angela mi racconta che la nonna rimpiangeva le chiacchiere con le altre donne, sedute davanti all'uscio mentre magari cucinavano o si occupavano degli animali di casa.
Soffriva per i rapporti più distaccati che si erano creati nelle nuove abitazioni, non usciva sul balcone perché l’altezza la spaventava e ogni volta che si chiudeva la porta a chiave diceva di sentirsi “in prigione”. La Matera che esce da questi ricordi è quella dei panni stesi al sole, del profumo del pane che si faceva una volta a settimana. Le massaie lo marcavano con un timbro e lo portavano a cuocere nei forni comuni.
Il timbro serviva per riconoscere la propria pagnotta e i timbri, fatti a mano, in legno, sono ancora in vendita nei negozi artigianali. Angela era piccola quando la famiglia è stata obbligata a lasciare i Sassi ma ricorda quando tutta l’area era stata interdetta, ogni angolo da cui poter guardare le gravine era stato chiuso con pannelli di legno. Nessuno doveva più ricordarsi dei Sassi, la “vergogna” era stata celata.
“Ma chi è nato nei Sassi, ai Sassi vuole tornare” mi dice Angela con la commozione negli occhi “Io 10 anni fa sono voluta tornare, a vivere e lavorare qui, contro il parere di tanti che mi davano per matta. E non sono l’unica, perché il concetto di Sassi è qualcosa che uno ha nel sangue”.
E’ così che Matera lentamente è risorta sulla spinta del desiderio, dell’impegno e dalla forza della sua gente: “Abbiamo alzato la testa e anche la voce, ci siamo fatti sentire perché qui volevamo tornare”. E il suo amore per i Sassi commuove anche me e lo sentirò perdendomi tra i vicoli, le corti e le piazze, sotto un sole implacabile, guardando le abitazioni restaurate e quelle che sono ancora un cantiere, ascoltando il rumore dei miei passi sulle pietre di questa città che ha rischiato di morire per sempre ed ora è un gioiello del nostro paese.
Sono tante le parole di Angela che si affollano nella mia mente mentre questa mattina vado a visitare un luogo eccezionale, nascosto nella campagna materana nella Gravina di Picciano: la Cripta dell’Annunciazione.
Per visitarla la prenotazione è obbligatoria perché gli ingressi sono contingentati per non rovinare, con l’umidità prodotta dal respiro, gli affreschi che coprono le pareti di roccia. Si scende nella grotta al buio e si prende posto su sedili in pietra.
Una musica suggestiva a poco a poco riempie l’aria e inizia la magia. È davvero un incantesimo quello a cui si assiste: una alla volta la luce illumina porzioni degli affreschi mentre una voce racconta: l’episodio biblico di Adamo ed Eva, la vita di vescovo e di altri sacerdoti. Nella luce appare una magnifica Madonna, altre figure minori, tutte avvolte da un prato di fiori rossi, un campo di papaveri che sembrano quasi muoversi nel vento dell’estate, così belli e vividi che l’autore anonimo di questi affreschi è stato chiamato “il pittore dei fiori”.
Stasera passeggio per i vicoli illuminati da una grande luna, per godermi le ultime ore in questa incredibile città cuore di una regione che sorprende per la bellezza e la varietà dei panorami. Siti storici e artistici di elevato valore, borghi accoglienti e luoghi senza tempo, si fondono con una natura incontaminata, uno scenario millenario da visitare con un ritmo lento e raccontare cercando di far rivivere tutta la sua malìa.
L'inguaribile viaggiatrice Barbara Mattiuzzo
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Ho messo insieme piccolo elenco di cose che vi consiglio di non dimenticare di mettere in valigia, quando farete questo viaggio: